16 ottobre 2018

Introduzione Liturgica 2


"Liturgia" nell'epoca moderna.
Con gli inizi del secolo XX il termine Liturgia man mano che se ne fa un uso sempre più frequente, vede evolvere il proprio significato. L'uso più comune, come dicevamo, intende la Liturgia come la parte esterna e sensibile del culto cristiano, mirante a rivestire il culto stesso di forme esteriori che allo stesso tempo fossero capaci di esaltarne il contenuto di fede per renderlo più facilmente percepibile ed esteticamente godibile. A questo significato rubricale, subentrò in seguito un significato più giuridico intendendo per Liturgia la somma delle norme con le quali l'autorità della Chiesa regola la celebrazione del culto.
Con la nascita del movimento liturgico e con l'opera di valenti studiosi delle fonti liturgiche, Liturgia acquista valenze sempre più ecclesiali, teologiche, spirituali. Essa esprime il «culto della Chiesa», continuazione del culto di Cristo (Beauduin: 1873-i960). Nel 1914 nasce Rivista liturgica a cura dei benedettini di Finalpia e si incomincia a parlare di «teologia liturgica».
Un impulso decisivo viene dato da Odo Casel (1886-1948) che vede la Liturgia come «l'azione rituale dell'opera salvifica di Cristo, ossia la presenza, sotto il velo di simboli, dell'opera divina della redenzione». Con Casel si ha quasi una rivoluzione copernicana del concetto di Liturgia: essa non è anzitutto un “culto” con cui l'uomo cerca un contatto con Dio attraverso l'offerta del suo omaggio e della sua adorazione; al contrario, Liturgia è un momento dell'azione salvifica di Dio sull'uomo di modo che questi, una volta assunto nel mistero di Cristo reso presente nel rito, possa lodare e adorare Dio «in Spirito e Verità».
Pio XII, con la Mediator Dei (1947), si inserisce nel dibattito teologico avviato dal movimento liturgico tra le due grandi guerre. Per l'enciclica la Liturgia è l'esercizio del sacerdozio di Cristo, è il culto pubblico totale del corpo mistico di Cristo, capo e membra. Anche Pio XII sottolinea che la Liturgia , prima di essere l'azione della Chiesa verso Dio, è l'azione di Cristo nella Chiesa, così che la Liturgia precede la Chiesa con priorità di natura e di logica, in quanto la Chiesa prima è soggetto passivo della Liturgia, poi ne diventa soggetto attivo. Si insinua il concetto secondo cui è anzitutto la Liturgia a fare la Chiesa, mentre la Chiesa fa (celebra) la Liturgia.

La “Liturgia” nel Vaticano II
Il Vaticano II costituisce un autentico spartiacque circa la nozione di Liturgia. Sappiamo che, per esplicito volere di Giovanni XXIII, la Liturgia doveva essere il primo e principale argomento da discutere in Concilio. Pertanto, il primo documento approvato dal Vaticano II fu proprio la costituzione Sacrosanctum Concilium su la sacra liturgia (4.12.1963).  La costituzione liturgica, da una parte, segue sostanzialmente l'impronta data da Mediator Dei alla Liturgia: la prosecuzione del mistero dell'incarnazione, uno strumento per unire l'uomo a Dio e Dio all'uomo.
D'altro canto, Sacrosanctum Concilium introduce notevoli sviluppi al concetto di Liturgia:
a.      Anzitutto il concetto e la realtà del mistero pasquale: l'opera di Cristo, compiuta una volta per sempre nel tempo della sua incarnazione e della sua Pasqua, ora si attua nel mistero della Chiesa. La Liturgia è la continuazione-attuazione del culto perfetto che Cristo ha prestato, nella sua umanità, al Padre. Nell'azione cultuale è Dio stesso che nella mediazione di Cristo e nella santificazione dello Spirito opera la «divinizzazione» dell'uomo in Cristo e nello Spirito.
b.      La Liturgia è l'esercizio dell'opera sacerdotale di Cristo attraverso segni significativi ed efficaci. In forza dei «santi segni», il culto perfetto che Cristo ha reso al Padre con la sua umanità, viene ora offerto in forma «sacramentale» da tutta l'umanità redenta. Nella Liturgia si attua cosi l'azione sacerdotale di Cristo: dare gloria al Padre operando la santificazione dell'uomo.
A modo di conclusione, possiamo offrire una espressione riassuntiva del concetto di Liturgia: essa è un'azione sacra attraverso la quale, con un rito, nella Chiesa e mediante la Chiesa, viene esercitata e continuata l'opera sacerdotale di Cristo, cioè la santificazione degli uomini e la perfetta glorificazione di Dio.

Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, introducendo la parte seconda dedicata alla Celebrazione del mistero cristiano, si domanda: che cosa significa il termine Liturgia? Ed offre questa risposta:
“Il termine «Liturgia» significa originariamente «opera pubblica», «servizio da parte del/e in favore del popolo». Nella tradizione cristiana vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all'«opera di Dio» (cf Gv 17,4). Attraverso la Liturgia Cristo, nostro Redentore e Sommo Sacerdote, continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l'opera della nostra Redenzione" (CCC 1069).
Il termine «Liturgia» nel Nuovo Testamento è usato per designare non soltanto la celebrazione del culto divino (cf At 13,2; Lc 1,23), ma anche l'annunzio del Vangelo (cf Rm 15, 16; Fil 2, 14-17.30) e la carità in atto (cf Rm 15,27; 2 Cor 9,12; Fil 2,25).In tutti questi casi, si tratta del servizio di Dio e degli uomini. Nella celebrazione liturgica, la Chiesa è serva, a immagine del suo Signore, l'unico «Liturgo» (cf Eb 8,2.6), poiché partecipa del suo sacerdozio (culto) profetico (annunzio) e regale (servizio della carità)" (CCC 1070).
“Opera di Cristo, la Liturgia è anche azione della sua Chiesa. Essa realizza e manifesta la Chiesa come segno visibile della Comunione di Dio e degli uomini per mezzo di Cristo. Impegna i fèdeli nella Vita nuova della Comunità. Esige «che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente»" (CCC 1071).

2 ottobre 2018

Introduzione Liturgica 1

 
Diamo inizio con questo articolo ad una serie di riflessioni sulla Liturgia, alla ricerca della sua natura, dei suoi contenuti delle sue espressioni. Essa è il culmine e la fonte di tutta la vita della Chiesa (SC 10); merita di essere conosciuta e amata convenientemente.Tanto per iniziare: quasi quotidianamente facciamo uso del termine Liturgia; qual è l'origine e il significato di questa parola? Proviamo a ricercarne le radici etimologiche e storiche dal suo comparire nell'uso civile classico, fino ai giorni nostri.
 
 
Perché "liturgia"?
Nell’uso civile. Nella lingua greca classica, cui appartiene, il termine Liturgia è composto dalla radice leit (da laós = popolo) e ergon (ergazomai = agire, operare). Il termine così composto significa direttamente «opera-azione per il popolo». In genere un'opera pubblica, tanto che il verbo leitourgein veniva usato per indicare il compimento di pubblici incarichi nella città o nello Stato.
Originariamente, dunque, il termine Liturgia ebbe un uso civile e significava un servizio pubblico, liberamente assunto, in favore del popolo. Potevano essere le feste o i giochi che determinate famiglie approntavano per la collettività; oppure l'armamento di una nave in caso di guerra.
Nell'epoca ellenistica il termine Liturgia perse il suo carattere originario di gratuità e di pubblicità e venne ad indicare un servizio, sia oneroso sia volontario, fatto alla comunità o anche ad un padrone.
Nell’uso religioso-cultuale. Sempre in epoca ellenistica, si iniziò ad indicare con Liturgia il servizio che si deve rendere agli dei, soprattutto nelle religioni dei misteri, da persone a ciò deputate. Con questo senso tecnico di «servizio di culto che si deve a Dio», Liturgia comparirà anche nella traduzione greca dell'AT per affermarsi poi anche nel Cristianesimo.
 
 
L’uso biblico di "Liturgia"
Verso l'anno 200 a.C., ad Alessandria d'Egitto fu tradotta la Bibbia dall'originale ebraico in greco, ad opera dei cosiddetti Settanta (per questo comunemente indicata con il segno numerico LXX).
Nell 'Antico Testamento. Nel testo greco dell'Antico Testamento il termine Liturgia compare circa 170 volte. Esso traduce due verbi ebraici. sherèt e abhàd. I LXX, tuttavia, nella traduzione seguirono questo accorgimento: ogni volta che i due termini ebraici erano riferiti al culto prestato a IHWH (= Jahvè) dai sacerdoti e dai leviti nel tempio, vennero costantemente tradotti con Leitourgia. Quando invece i medesimi termini ebraici indicavano il culto reso a IHWH dal popolo, vennero tradotti con latria e dulia.
E' evidente che i LXX, con questo accorgimento linguistico, vollero dare alla parola Liturgia un significato tecnico ufficiale di «culto levitico» prestato da una particolare categoria di persone secondo un cerimoniale stabilito nei libri sacri della Legge. Liturgia era la forma migliore e più elevata del culto reso al Signore da parte di persone proprio per questo scelte e consacrate.
Nel Nuovo Testamento. Il termine Liturgia ricorre soltanto 15 volte nel Nuovo Testamento: 5 volte con un significato profano, 4 volte in senso rituale-sacerdotale secondo l'AT, solo 3 volte in senso di culto spirituale (Rm 15,16; Fil 2,17) e di culto rituale cristiano (At 13,2).
In Rm 15,6, l'Apostolo Paolo si dichiara ministro-liturgo di Cristo; la predicazione del Vangelo è per Paolo un'azione liturgico-sacerdotale perché ha come scopo l'offerta dei pagani come sacrificio gradito a Dio. In Fil 2,17 Paolo dichiara di essere pronto a «essere versato in libazione sul sacrificio e sulla Liturgia della fede» dei Filippesi.
Solo in At 13,2 (“Mentre essi facevano Liturgia al Signore e digiunavano, lo Spirito Santo disse...") possiamo trovare il significato più vicino a quella che poi sarà chiamata «Liturgia cristiana»: la preghiera comunitaria della comunità cristiana.
Viene da chiedersi: perché un uso cosi limitato, nel Nuovo Testamento, di un termine cosi prestigioso nella tradizione dell'antica alleanza? Stessa sorte toccò anche alla parola «sacerdozio». Il motivo è semplice: perché la nuova economia salvifica inaugurata da Cristo doveva «completare» le antiche istituzioni, senza sopprimerle (Mt 5,17). Il compimento-completamento portato da Cristo al culto dell'antica alleanza sta nella linea indicata dai profeti. Essi avevano duramente contestato la liturgia levitica, ridotta a esteriorità e formalismo, ed avevano tenuto desta l'idea che tutto il popolo di Dio è un regno di sacerdoti e nazione consacrata per un culto spirituale: «Ascolterete la mia voce, osserverete la mia alleanza» (Es 19,6). Da qui la contestazione del culto materiale (Ger 7,22-23; Amos 5,25) e la riaffermazione di un culto spirituale (Os 6,6; Dan 3,39-41; Sal 39,7-9; 50,17-19; Mich 6,l -8).
Si comprende così come l'antico significato di Liturgia (templare, sacerdotale-levitico) fosse piuttosto riduttivo per gli Autori neotestamentari, tanto da costringerli a farne un uso piuttosto limitato; preferirono di gran lunga parlare di latria, dulia intesa come culto sacerdotale-spirituale di tutto il popolo della nuova alleanza.
 
"Liturgia " in epoca patristica.
Nell'Occidente latino il termine Liturgia non riuscì cosi presto a liberarsi del significato negativo che si portava dietro a seguito della tradizione veterotestamentaria. Basti pensare che nella Chiesa postapostolica, mentre si traslitterano dal greco in latino molte parole (es. Episcopus, Presbyter, Diaconus, Apostolus, Propheta, Eucharistìa ecc.), per Liturgia si fa ricorso ad espressioni come officium, ministerium, servitium. L'Oriente greco conservò invece il termine Liturgia, ma per indicare l'azione cultuale per eccellenza del popolo cristiano, cioè la liturgia eucaristica.
Occorre attendere il secolo XVI, a seguito della riscoperta della classicità greca in Occidente, per veder comparire di nuovo il termine Liturgia. Si scrivono libri sulla Liturgia greca, sulla Liturgia latina (intesi come riti e formulari relativi alla Messa).
Nel linguaggio ecclesiastico ufficiale latino il termine Liturgia comincia ad apparire solo nella prima metà del secolo XIX con Gregorio XVI (1832) e con Pio IX (1864). Diventa usuale con san Pio X (1903). Per Liturgia si intende la ritualità cerimoniale e rubricale. Nei seminari si insegna la Liturgia ma tale insegnamento consiste nello spiegare le cerimonie e le rubriche dei libri liturgici.


7 settembre 2018

Iconografia e Liturgia 3

 
 
L'Icona nella teologia e nella liturgia
 
Uniti nella medesima tradizione, Oriente e Occidente sono insorti insieme contro chi distruggeva il culto delle immagini, perché nel rifiuto delle icone vedevano il rifiuto del mistero stesso dell'Incarnazione. E difendendo l'immagine del Dio fatto uomo, il Concilio di Nicea ha voluto difendere anche l'immagine divina presente nell'uomo. Accanto all'icona di Cristo, vi sono le icone dei santi, di coloro che, secondo la spiritualità orientale, hanno ritrovato in se stessi l'immagine di Dio e, in sinergia con lo Spirito Santo, sono pervenuti alla somiglianza con Cristo. I santi sono i “somigliantissimi”, icone viventi, trasparenza della presenza del Regno su questa terra. “È sintomatico - scrive Pavel Evdokimov - che l'iconoclastia, al momento della sua massima violenza, colpisce al tempo stesso le icone, la vita monastica, il culto dei santi e la divina maternità della Teotokos” (La teologia della bellezza, tr. di G. Vetralla, Roma 1971, p. 196). “Non è contro le icone che tu lotti, ma contro i santi”, scrive Giovanni Damasceno all'Imperatore Leone III (Discorsi sulle immagini II, 10). E il Niceno II dichiara: “Sia attraverso la contemplazione della Scrittura, sia attraverso la rappresentazione delle icone ... noi ci ricordiamo di tutti i prototipi e siamo introdotti presso di loro”. Contemplare un'icona non è un fatto estetico, ma un evento spirituale. L'icona rappresenta un appello alla conversione, un invito ad acconsentire a quell'opera di trasfigurazione di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Corinti 3, 18: “Tutti noi, che a viso scoperto riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati a sua stessa immagine, di gloria in gloria, per azione dello Spirito”.
            La controversia iconoclasta si concluse con una dottrina ecclesiastica ufficiale delle immagini. L'icona trovò posto nelle abitazioni dei fedeli; ancor oggi, l'immagine sacra, dinanzi alla quale arde un piccolo cero, veglia dall'alto su quelli che abitano la casa. L'uso liturgico delle immagini venne regolamentato; nessuna icona di santo poteva essere messa allo stesso rango dell'icona di Cristo e della Vergine; solo il santo cui era dedicata la chiesa aveva un posto particolare. L'antico cancello che separava il Santo (ndr. presbiterio) dall'assemblea, dopo il Concilio niceno II si riempie di icone e si trasforma progressivamente nell'attuale iconostasi. Si introdusse l'uso, tuttora in vigore, di collocare l'icona della festa del giorno su di un pulpito ed esporla così alla venerazione dei fedeli. A partire dal VII secolo, è testimoniato il bacio alle icone; dopo la crisi iconoclasta si cominciò a baciare le icone anche durante la liturgia.
            Ma anche la stessa “scrittura” delle icone - graphein in greco indica sia l'atto di scrivere che quello di dipingere - fu normata da canoni conciliari. La Chiesa veglia sull'autenticità dell'iconografia, che non è una semplice creazione di un'opera d'arte, ma un'opera spirituale, compiuta nella preghiera e nell'ascesi. L'uso “altro” della prospettiva, delle dimensioni e delle proporzioni dei corpi, degli edifici e degli oggetti, il simbolismo dei colori, il fondo dorato e il sapiente gioco di luci e di ombre fanno dell'icona una finestra che si apre sul mondo divino. Anche l'icona dei santi non è mai un ritratto; essa vuole offrire alla contemplazione dei fedeli “l'uomo nascosto nel profondo del cuore” di cui parla l'apostolo Pietro (1Pt 3, 4), l'immagine di Dio celata nel profondo dell'essere che il santo ha fatto riemergere nella sua vita.
Ma l'icona non è patrimonio esclusivo della chiesa d'Oriente. A Roma esisteva da un tempo imprecisato un'antica icona della Vergine che, secondo la leggenda, era stata dipinta da Luca e un'icona “non dipinta da mani d'uomo” di Cristo. Nel corso dell'VIII secolo, l'Italia diede riparo a icone orientali che venivano sottratte alla furia iconoclasta. Il Patriarca Germano racconta che un'icona di Maria fuggì alla volta di Roma, viaggiando sulle acque; più tardi fu chiamata “Maria la romana”. L'icona di Cristo era collocata nella cappella privata del papa nella residenza del Laterano; in occasione della festa dell'Assunzione della Vergine, il 15 agosto, veniva portata solennemente in processione a Santa Maria Maggiore, dove si trovava l'icona dipinta da Luca. Papa Adriano I (772-795) fece dono alla basilica di San Pietro di due gruppi di tre grandi icone. Proprio a Roma si è sviluppata allora una notevole decorazione musiva a mosaico che ancora oggi si può ammirare in varie Basiliche: Santa Cecilia, San Marco a Piazza Venezia e Santa Prassede.
Come in Oriente, così anche in Occidente l'uso delle icone nella liturgia viene regolamentato. Nei secoli successivi l'Occidente, pur ispirandosi alle icone orientali, elaborerà un proprio modello iconografico.


2 settembre 2018

Iconografia e Liturgia 2

 
Il Concilio di Nicea II°

Con l'avvento al trono imperiale di Irene, fervente sostenitrice del culto delle immagini, la crisi iconoclasta conobbe una svolta. L'Imperatrice decise di convocare un concilio e Papa Adriano I diede la sua approvazione. Dopo un difficile inizio, dovuto ai tentativi di sabotaggio da parte della fazione iconoclasta, l'assemblea dei Vescovi, riunita a Nicea nel 787, definì, innanzitutto, i criteri in base ai quali riconoscere l'ecumenicità di un concilio. Sono criteri di grande interesse, poiché fu la sola volta in cui un concilio cercava di definire le condizioni in base alle quali un'assemblea sinodale può essere ritenuta ecumenica. Un concilio, per essere recepito come tale, deve vedere la partecipazione, o almeno l'invio di rappresentanti, del papa e dei quattro patriarcati apostolici; deve professare una dottrina coerente con quella dei precedenti concili ecumenici; deve essere recepito dai fedeli. In base a questi criteri fu negata l'ecumenicità del Sinodo di Ieria del 754 e invalidate le sue decisioni; fu affermata la legittimità del culto delle immagini e vennero inoltre approvati ventidue canoni disciplinari, tra i quali vanno ricordati quelli relativi al divieto delle interferenze dei poteri mondani sull'elezione dei vescovi, alla proibizione ai vescovi di partecipare ai traffici commerciali, all'obbligo di convocare annualmente un sinodo diocesano. Si tratta di norme che eserciteranno una forte influenza sulla legislazione ecclesiastica medievale.
            La dottrina delle immagini fu definita nella sesta sessione. Così recita la definizione: “Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica - riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa - noi definiamo con ogni rigore e cura che, come la raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerate e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti sacre, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della purissima Nostra Signora, la Santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e i giusti. Infatti, quanto più frequentemente queste immagini sono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono innalzati al ricordo e al desiderio dei modelli originari e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta certo di un'adorazione, che la nostra fede tributa solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all'immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffigurato” (Concilio di Nicea II, Definizione).
            Ma nonostante le solenni affermazioni del Concilio di Nicea, la lotta iconoclasta non si arrestò. La stessa ecumenicità del Concilio fu negata, in Occidente, da Carlo Magno nel Sinodo di Francoforte del 794; in Oriente, l'Imperatore Leone V (813-820) inaugurò la seconda fase della lotta iconoclasta e della persecuzione degli iconoduli. Soltanto nel marzo dell'843, un sinodo convocato per iniziativa dell'Imperatrice Teodora e del Patriarca di Costantinopoli Metodio, reintrodusse definitivamente il culto delle immagini e istituì, a commemorazione di tale evento, “la festa dell'Ortodossia”, tuttora celebrata nella Chiesa d'Oriente la prima domenica di Quaresima. Tale festa celebra la vittoria dell'iconodulia e la definitiva conferma della cristologia elaborata dai primi sei concili ecumenici, dottrina che è alla base della venerazione delle icone.



22 agosto 2018

Iconografia e Liturgia 1

 
Il Concilio di Nicea II° costituisce la conclusione di un lungo processo di riflessione sul senso e il posto delle immagini nella vita della Chiesa.
Fino all’inizio del III° secolo predomina nella Chiesa l’assenza delle immagini. Ciò si deve al pericolo dell’idolatria diffusa nel mondo pagano, già alla base del divieto di riprodurre immagini nella legislazione dell’Antico Testamento.
La pace della Chiesa ai tempi di Costantino ha delle conseguenze decisive. A seguito del numero sempre crescente di battezzati, aumentano le manifestazioni esteriori della pietà cristiana, si sviluppa il culto dei martiri, si accresce l’importanza dei pellegrinaggi, ovunque sorgono nuove chiese e Basiliche. L’arte cristiana cessa di essere prevalentemente iconografia funeraria, inintelligibile ai non iniziati e assume la funzione di favorire l’evangelizzazione delle folle sempre più numerose di cristiani.
            Nel IV° secolo si levano, per la prima volta nella storia della Chiesa, delle voci che disapprovano le immagini religiose, facendo appello all'interdizione delle immagini contenuta nell'Antico Testamento (cf. Es 20, 4; Dt 4, 15-18). Il canone 36 del Concilio di Elvira (300 ca), di cui per altro siamo scarsamente informati, stabilisce che “in chiesa non deve esserci nessuna immagine”; la lettera di Eusebio di Cesarea all'imperatrice Costanza e gli scritti di Epifanio di Salamina contengono affermazioni iconoclaste. A detta degli studiosi, questa prima forma di avversione nei confronti delle icone, è un fenomeno limitato e ristretto, forse tinto di colorazione ariana; sembra esserci un legame tra l'insistenza ariana sulla trascendenza di Dio e il divieto delle immagini. Ma queste voci iconoclaste persistono nel corso dei secoli e altre voci, allora, si levano a difendere le icone. Scrive Gregorio Magno (540-604): “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture” (Lettere IX, 209).
            L'icona si diffonde in maniera massiccia nel corso dei secoli VI° e VII°, favorita dalla fede popolare, dalla leggenda, dal miracolo. Non si diffonde ugualmente in tutte le aree della cristianità; i siriaci e gli armeni, ad esempio, erano molto meno inclini per il loro passato culturale all'uso delle immagini. È significativo che gli imperatori che favorirono l'iconoclastia fossero d'origine isaurica o armena. Nel 692, il Concilio in Trullo afferma: “In certe riproduzioni di immagini sacre il Precursore è raffigurato mentre indica col dito l'agnello. Questa rappresentazione fu assunta come simbolo della grazia. Essa era una figura nascosta di quel vero agnello che è Cristo, nostro Dio, rivelato a noi secondo la legge. Avendo dunque accolto queste figure e ombre come simboli della verità trasmessa dalla Chiesa, preferiamo oggi la grazia e la verità stesse come compimento di questa legge. Perciò, per esporre con l'aiuto della pittura ciò che è perfetto, decretiamo che d'ora in poi Cristo, nostro Dio, sia rappresentato nella sua forma umana e non nell'antico agnello” (can. 82). L'immagine di Cristo implicava già per i padri del Concilio trullano una confessione di fede piena nell'incarnazione.
            Un fattore che contribuì all'inasprimento delle posizioni favorevoli o contrarie all'uso delle icone fu l'avanzare dell'Islam, che pretendeva di essere la più alta e più pura rivelazione di Dio e accusava la Chiesa di politeismo e di idolatria per la sua venerazione delle immagini. L'ottavo secolo fu teatro di scontri violenti. L'atto inaugurale della prima fase della lotta iconoclasta fu l'ordine, impartito dall'Imperatore Leone III il Siro nel 726, di distruggere la raffigurazione di Cristo collocata sulla porta di bronzo del palazzo imperiale a Costantinopoli; l'immagine venne sostituita con una croce, sotto la quale l'imperatore fece collocare questa iscrizione: “Poiché‚ Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di vita, e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli”. A questo gesto seguì la promulgazione ufficiale di provvedimenti contro le immagini e il loro culto e violenze contro le icone e quanti le veneravano. Va ricordato che le misure iconoclaste di Leone III seguono di pochi anni l'editto del califfo Jadiz II, che ordinava la distruzione delle immagini in tutte le province cristiane da lui conquistate e gli attacchi degli ebrei al culto cristiano. L'imperatore tenta di operare un compromesso culturale che renda possibile la convivenza tra arabi, cristiani ed ebrei, cercando di smorzare gli elementi di conflitto. La ragione di stato vince sulle ragioni della fede. Papa Gregorio III, nel 731, reagì scomunicando gli avversari delle icone e del loro culto. In Oriente la difesa della venerazione delle icone fu opera soprattutto di Germano, Patriarca di Costantinopoli, di Giorgio di Cipro e di Giovanni Damasceno. Germano afferma che rigettare le icone significa rigettare l'incarnazione; nell'icona “noi disegniamo l'immagine del suo aspetto umano secondo la carne, e non quella della sua divinità incomprensibile e invisibile, perché ci sentiamo spinti a rappresentare quella che è la nostra fede per mostrare che Dio non si è unito alla nostra natura in apparenza, come un'ombra, ma che è divenuto veramente uomo” (Lettera a Giovanni di Sinade). Giovanni Damasceno combatte gli iconoclasti a diversi livelli. Confuta l'accusa di adorare nelle icone un pezzo di legno dicendo: “Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, diventato materia a causa mia” (Discorsi I, 16), e afferma che le icone sono “i libri degli illetterati” (Discorsi II, 10). Ma l'argomentazione più importante è quella teologica; il fondamento dogmatico del culto delle icone è l'Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne, Gesù è il volto umano di Dio e noi, dunque, lo possiamo rappresentare (Discorsi I, 22). L'Antico Testamento vietava l'immagine; Dio, nell'antica economia, si rivela solo attraverso la parola. Nel Nuovo Testamento la Parola si fa immagine. Nella difesa delle icone si citerà sovente il Salmo 47, 9: “Quello che abbiamo udito, l'abbiamo visto”. Giovanni distingue accuratamente il prototipo dall'icona che lo rappresenta. L'immagine è oggetto di venerazione, non di adorazione; quest'ultima è riservata soltanto a Dio.
            Nel 754, per iniziativa dell'Imperatore Costantino V, venne convocato a Ieria, sul Bosforo, un Sinodo che diede carattere normativo alle decisioni degli iconoclasti. Vi parteciparono 388 Vescovi, ma nessuno proveniva dalle sedi di Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Il Sinodo dichiara che gli imperatori sono uguali agli Apostoli, pieni di sapienza per opera dello Spirito Santo, incaricati di ricondurre sulla buona via i fedeli e di istruirli, e condanna la creazione di icone e il loro culto. Insiste sulla distanza tra l'icona, un oggetto materiale, e ciò che essa pretende di far vedere. Considera come unica vera immagine l'eucaristia. In tal modo, l'iconoclasmo, finora sostenuto soltanto da un editto imperiale, diventava dogma di tutta la Chiesa.
            Nei due decenni successivi, i monaci, principali sostenitori delle icone, furono violentemente perseguitati; numerosi monasteri furono confiscati, i monaci costretti ad arruolarsi nell'esercito imperiale, alcuni furono sottoposti a tortura. Papa Stefano nel 769 convocò un Sinodo al Laterano che anatemizzò quello di Ieria; anche i Patriarchi d'Oriente, Teodoro di Gerusalemme, Teodoro d'Antiochia e Cosma di Alessandria si rifiutarono di accettare le decisioni di Ieria.


8 agosto 2018

Celebrare nello spazio 10


ARREDI LITURGICI 6

VASI SACRI
I “vasi sacri” sono i diversi recipienti di cui si fa uso della liturgia: il calice, la patena, la pisside o ciborio, la teca, l’ostensorio, le ampolline per l’acqua e il vino, le ampolle per gli oli santi.
Sono questi gli arredi sacri per i quali bisogna assicurare la maggiore attenzione nella custodia e nella manutenzione, soprattutto per quelli destinati ad accogliere il Corpo e il Sangue del Signore. La materia dei vasi sacri deve essere solida e nobile, non soggetta a facile deterioramento.
I vasi sacri in metallo - specialmente calici, patene, pissidi e teche - devono essere abitualmente dorati all’interno, se il metallo è ossidabile; se invece il metallo è inossidabile si può fare a meno della doratura (Cfr. PNMR 294). Il calice deve essere dotato di una coppa realizzata con materia che non assorba, mentre la base può essere fatta con altre materie pregiate e decorose. Particolare attenzione è da porre ai calici con la coppa in ceramica la cui vetrinatura può facilmente deteriorarsi creando alcune zone o anche delle semplici filature assorbenti (Cfr. PNMR 291).
I vasi destinati ad accogliere il Corpo di Cristo (patena, pisside, teca, ostensorio) possono essere fabbricati con diverse materie, a seconda delle differenti regioni, come l’avorio o legni particolarmente pregiati (Cfr. PNMR 292). È significativo che nella celebrazione eucaristica si usi un unico calice e un’unica patena grande che contenga il pane per il sacerdote, per i ministri e per i fedeli. Il calice e la patena devono essere collocati sulla mensa solo al momento opportuno, non devono quindi ingombrarla fin dall’inizio della messa.
Nella processione offertoriale devono essere presentati il pane e il vino per il sacrificio eucaristico (Cfr. PNMR 49), non ha senso presentare il calice vuoto e rivestito dei tovaglioli per la sua purificazione al termine della messa. Perde di significato anche condurre in processione offertoriale una pisside chiusa - il cui uso proprio è la conservazione del pane eucaristico - o una patena coperta da un lino. La processione offertoriale non è un’occasione per sfoggiare la bellezza artistica dei vasi sacri, ma è il momento in cui l’assemblea celebrante presenta il frutto del proprio lavoro che pertanto deve essere visibile da parte di tutti.
Notiamo infine che come vasi sacri per la celebrazione eucaristica non possono essere usati semplici cestini o altri recipienti destinati all’uso comune fuori delle sacre celebrazioni, o scadenti per qualità, o che manchino di ogni stile artistico (Istruzione Inæstimabile Donum, n. 16).
La teca e l’ostensorio sono due vasi eucaristici che vengono usati fuori dalla messa. La teca è una piccola custodia utilizzata per riporre un piccolo numero di ostie da portare come viatico o come comunione agli infermi. L’ostensorio invece è sempre una teca ma trasparente, dotata di piedistallo e di decorazioni diverse, nella quale si pone del pane eucaristico per esporlo all’adorazione dei fedeli.
Le ampolline nelle quali si conserva il vino e l’acqua sono generalmente trasparenti per riconoscerne facilmente il contenuto. Si può avere l’impressione che non sia destinata grande attenzione a questi vasi eppure necessitano di una pulizia frequente e di un completo ricambio periodico di ciò che conservano nel loro interno. Un’ampollina poco pulita rischia di far inacidire il vino con grande facilità. Se vengono portate in processione offertoriale è bene che abbiano dimensioni adeguate per essere viste da tutti. Presso l’altare può essere portata processionalmente anche la sola ampolla con il vino.
Le ampolle degli oli santi, soprattutto quelle usate come riserva e non per la celebrazione dei sacramenti, devono essere adatte per conservare a lungo - un intero anno - i tre preziosi unguenti. La conservazione di queste ampolle è cosa assai delicata. È bene che non siano nelle mani di chiunque e che possano essere custodite in un luogo in vista dei fedeli ma ben chiuso.
 

2 agosto 2018

Celebrare nello spazio 9


ARREDI LITURGICI 5

TABERNACOLO
Si è soliti chiamare tabernacolo la custodia dell’Eucaristia. Tale vocabolo significa "piccola abitazione", è infatti il diminutivo del termine latino "taberna" (= tenda, abitazione, casa).
La "tenda-tabernacolo", già nell’esodo del popolo di Israele, era il luogo della presenza di Dio. In essa Mosè fece custodire l’arca dell’Alleanza.
Così leggiamo nella Bibbia: "Mosè a ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell'accampamento, ad una certa distanza dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno; appunto a questa tenda del convegno, posta fuori dell'accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore. Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda, tutto il popolo si alzava in piedi, stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: guardavano passare Mosè, finché fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all'ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda. Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro. Poi questi tornava nell’accampamento, mentre il suo inserviente, il giovane Giosuè figlio di Nun, non si allontanava dall’interno della tenda" (Es 33,7-11).
Anche nella tradizione cristiana il tabernacolo è il luogo della presenza di Dio: in esso è presente Gesù Cristo, il Verbo fatto Carne, nel segno delle specie eucaristiche. La lampada che vi arde vicino è il segno visibile di tale presenza.
Nell’introduzione generale al Rito della Comunione fuori della Messa e culto eucaristico è indicato il fine per cui si è soliti conservare l’Eucaristia: "Scopo primario e originario della conservazione della Eucaristia fuori della Messa è l’amministrazione del Viatico; scopi secondari sono la distribuzione della comunione e l’adorazione di nostro Signore Gesù Cristo, presente nel Sacramento" (n. 5, p. 14;). In questo stesso rituale è descritto anche il luogo per conservare l’Eucaristia: "Il luogo per la conservazione dell’Eucaristia si distingua davvero per nobiltà e decoro. Si raccomanda caldamente che sia anche adatto all’adorazione e alla preghiera personale in modo che i fedeli possano con facilità e con frutto venerare anche con culto privato, il Signore presente nel Sacramento. È più facile raggiungere questo scopo, se si prepara una cappella separata dal corpo centrale della chiesa, specialmente nelle chiese in cui si svolgono frequenti celebrazioni di matrimoni o funerali o che sono meta di pellegrinaggi o di visite per i loro tesori di arte e di storia" (n. 9, p 16).
Inoltre il tabernacolo deve essere unico, inamovibile e solido, non trasparente, e ben chiuso (cfr. Principi e norme per l’uso del messale romano, n. 276-277).
Notiamo ancora una volta come l’esigenza non sia quella di avere nella chiesa una teca più o meno capiente ed adornata per custodire le specie eucaristiche, ma di realizzare uno spazio architettonico adatto agli scopi stessi della conservazione del SS. Sacramento.
È stato già posto in evidenza come i "poli spaziali" della celebrazione eucaristica siano l’ambone (mensa della Parola) e l’altare (mensa del Pane eucaristico), ai quali si aggiunge la sede presidenziale.
Il tabernacolo non costituisce un riferimento celebrativo e pertanto, là dove è possibile, è bene che non sia collocato nel presbiterio ma possa comunque essere raggiunto facilmente dai ministri nei momenti opportuni. Il luogo della riserva eucaristica può essere ornato con fiori, dotato di una illuminazione adeguata e di posti idonei per l’adorazione e la riflessione personale.
È bene che accanto al tabernacolo possa trovarsi anche un testo della Scrittura, affinché anche nella preghiera personale i fedeli possano avere ancora un contatto diretto con la "duplice mensa".
 

25 luglio 2018

Celebrare nello spazio 8


GLI ARREDI LITURGICI 4

SEDE
Il verbo "presiedere" (dai termini latini prae-sedere = essere seduto davanti) non è ricorrente nel Nuovo Testamento, ad usarlo è solo S. Paolo in riferimento a coloro che hanno il compito di dirigere una comunità. L’uso biblico di questo termine non è liturgico, ma designa l’attività globale dei vescovi e dei presbiteri come capi di una comunità.
Nell’uso attuale si scorge quasi esclusivamente un significato liturgico. È pur vero che, poiché la liturgia - e soprattutto la celebrazione eucaristica - è culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa, la presidenza liturgica avrà il suo pieno significato alla luce di tutta l’attività della comunità.
Per il presbitero quindi la presidenza liturgica è "culmine" e "fonte", punto di arrivo e punto di partenza, di tutta l’azione pastorale. Chi presiede un’assemblea liturgica, ovvero chi è "seduto davanti" ad un’assemblea, deve poter rendere visibile il proprio ministero di guida; è quindi indispensabile la realizzazione di uno spazio adatto a questo scopo: una "sede" speciale.
Ecco come la sede presidenziale è descritta nell’introduzione al messale:
"La sede del sacerdote celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo, al fondo del presbiterio, a meno che non vi si oppongano la struttura dell’edificio e altri elementi, ad esempio la troppa distanza che rendesse difficile la comunicazione tra il sacerdote e l’assemblea." (PNMR, 271).
Infatti tutta la disposizione della chiesa deve presentare l’immagine del corpo nel quale Cristo è la testa e i fedeli sono le membra. Non più separazione tra navata e presbiterio, tra fedeli e presidente, ma reciproca convergenza, comunicazione e complementarità. La celebrazione cristiana è posta in atto da tutto il Corpo mistico; in essa il presidente rende visibile la presenza di Cristo-Capo.
È un luogo dal quale il presidente non esercita il proprio dominio ma la disponibilità al servizio, come pone bene in evidenza la preghiera di benedizione di una nuova sede: "Signore Gesù Cristo, tu comandi ai pastori della Chiesa non di farsi servire, ma di servire umilmente i fratelli; assisti coloro che da questa sede presiedono la tua sana assemblea; fa che proclamino con la forza dello Spirito la tua parola e siano fedeli dispensatori dei tuoi misteri perché, insieme con il popolo loro affidato, ti lodino senza fine davanti al trono della tua gloria" (Benedizionale, p512).
La sede presidenziale è da concepire come "spazio celebrativo" e non come struttura funzionale alla posizione seduta del presidente. Così come un leggio non realizza simbolicamente un ambone, un qualsiasi sedile non è assolutamente una sede presidenziale.
Diremo, quindi, che è lo "spazio" della sede per la presidenza liturgica che deve contenere un sedile adeguato. Inoltre, in tale spazio, il presidente della celebrazione deve poter stare anche in piedi nei momenti opportuni, perciò sarà bene dotare la sede anche di una pedana confacente. Dalla sede il presidente, seduto, ascolta le letture e tiene l’omelia; in piedi, presiede i riti di inizio della messa, introduce e conclude la preghiera dei fedeli, pronuncia la preghiera dopo la comunione, benedice e congeda l’assemblea.
Là dove fosse necessario, è bene studiare la posizione più conveniente del microfono e del supporto che lo regge. Per quanto possa sembrare una banalità, spesso cavi e aste per microfoni diventano vere e proprie trappole per presidenti liturgici. Anche lo spazio della sede può essere efficacemente posto in risalto da un’adeguata illuminazione.
Purtroppo è spesso ingombrato e occultato da vistosi leggii o dallo stesso altare. In sede di progettazione è sempre opportuno curare la non sovrapposizione delle strutture celebrative, soprattutto della sede che spesso è la più trascurata.
 
 

21 luglio 2018

Celebrare nello spazio 7


GLI ARREDI LITURGICI 3

AMBONE
Il termine "ambone" indica il "luogo elevato" (deriva infatti dal verbo greco anabàinein che significa salire) da cui si proclamano i testi biblici durante le liturgie. Nella celebrazione della messa l’altare e l’ambone segnano - attraverso una duplice dimensione spaziale - i due poli celebrativi comunemente noti come liturgia della parola e liturgia eucaristica.
La Costituzione conciliare sulla Divina Rivelazione afferma:
"La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli" (Dei Verbum, 21).
È quindi chiara la relazione che intercorre tra ambone e altare. Questa connessione fra le "due mense" dovrebbe condurre architetti e artisti a realizzare dei progetti che evidenzino anche stilisticamente questo reciproco legame. Strutturalmente l’ambone è realizzato secondo sistemi architettonici e stilistici diversi, e nel corso della storia ha avuto collocazioni diverse all’interno dell’aula liturgica.
Le indicazioni funzionali proposte da Principi e Norme per l’uso del Messale Romano sono sufficientemente chiare:
"Conviene che tale luogo generalmente sia un ambone fisso e non un semplice leggio mobile. L’ambone, secondo la struttura di ogni chiesa, deve essere disposto in modo tale che i ministri possano essere comodamente visti e ascoltati dai fedeli" (n. 272).
Inoltre le Precisazioni CEI invitano a non utilizzare l’ambone come supporto per altri libri all’infuori dell’Evangeliario e del Lezionario (cfr. n. 16).
L’ambone è una struttura che contiene anche il leggio per riporvi i libri delle Scritture, ma un semplice leggio non costituisce un ambone. Pertanto, come nel caso dell’altare, l’ambone non va concepito come un arredo ma come una spazio architettonico armonizzato con l’ambiente che lo accoglie e con le altre strutture. L’ambone non ha bisogno di essere ricoperto da drappi e altri ornamenti. Una sobria confezione floreale può porlo in risalto ma mai occultarlo o renderlo difficilmente accessibile e funzionale.
È bene curare un illuminazione adeguata per assicurare una buona visibilità dell’ambone da parte dell’assemblea e una perfetta leggibilità dei testi da parte dei lettori.
In molte chiese sprovviste di ambone fisso si nota la presenza di due leggii: uno per la proclamazione della Parola, l’altro per reggere il messale presso la sede: può anche trovarsi un terzo leggio per la guida dell’assemblea. Ci si potrebbe chiedere: quale di queste strutture è la sede della Parola di Dio dato che spesso infatti sono leggii uguali? Se una chiesa è sprovvista di un ambone fisso la sede della proclamazione della Parola deve potersi distinguere dalle altre strutture che funzionalmente sono uguali (servono tutte per sostenere dei libri) ma simbolicamente sono ben diverse.
Molto bella la sottolineatura di J. Aldazábal:
"Una lettura, da qualunque posto venga proclamata ha sempre lo stesso valore. Ma è certamente più espressivo l’annuncio fatto alla comunità da un luogo riservato e degno: è la cattedra dalla quale Dio ci parla, il vero trono della sapienza dal quale Cristo si rivela nostro unico Maestro. Una Parola che ci viene dall’alto, non inventata da noi. Una Parola trasmessa con la mediazione della Chiesa, non per iniziativa privata".
Circa l’utilizzo dell’ambone è bene ricordare che da esso si proclamano esclusivamente le letture e il salmo responsoriale. Con una "formula concessiva" Principi e Norme (n. 272) afferma: "ivi inoltre si può tenere l’omelia e la preghiera dei fedeli". L’omelia è da tenersi preferibilmente alla sede (cfr. n.97).
Infine è espressamente affermato che "non è conveniente che all’ambone salga il commentatore, il cantore o l’animatore del coro". L’uso improprio dell’ambone comporta un impoverimento della portata simbolica che esso deve trasmettere durante le celebrazioni.
 
 

15 luglio 2018

Celebrare nello spazio 6


GLI ARREDI LITURGICI 2

ALTARE
L’altare non può essere assolutamente considerato un "arredo liturgico", esso è infatti uno "spazio celebrativo" di carattere architettonico. Sono purtroppo ancora numerosi gli edifici chiesastici sprovvisti di un altare le cui caratteristiche corrispondano alle indicazioni del diritto liturgico (cfr. Principi e norme per l’uso del Messale Romano, nn. 259-267; Precisazioni CEI, n.14).
Non bisogna quindi meravigliarsi se spesso tale struttura è da considerarsi un arredo, e, in molte situazioni, di pessima qualità funzionale, estetica e simbolica. Dal punto di vista funzionale e strutturale l’altare è un "tavolo" - preferibilmente fisso e di materiale solido e degno (è da privilegiare la pietra naturale) - opportunamente preparato (tovaglia, ceri, fiori...) per un momento sacrificale-conviviale. Su di esso devono poter essere agevolmente posati, al momento opportuno, la patena con il pane e il calice con il vino per la celebrazione dell’Eucaristia. Inoltre sul suo piano si è soliti porre - secondo attenzioni più o meno garbate - il messale e il microfono.
In molte chiese l’altare è una vera e propria credenza. C’è di tutto: teca con la riserva di ostie, quaderno per gli avvisi, libretto o foglio dei canti, lastre di vetro o fogli di plastica trasparente, messale, chiave del tabernacolo, occorrente per il lavabo, leggio e microfono ingombranti, fiammiferi...
I termini "altare" e "mensa" sono utilizzati come sinonimi poiché indicano funzionalmente la medesima struttura ma rivelano una sottolineatura simbolica differente. Si è soliti riferire il termine altare all’aggettivo latino altus (= elevato). L’altare è quindi il luogo elevato che serve da punto di congiungimento tra Dio e il mondo.
Per questo le cime di montagne e colline sarebbero stati i luoghi privilegiati per la loro edificazione. Ma l’etimologia più corretta sembra essere quella che fa derivare questo vocabolo dal verbo latino ad-oleo, il cui significato è "far bruciare, offrire un sacrificio, far salire il profumo dell’offerta verso la divinità".
Altare indica quindi la dimensione sacrificale della celebrazione che in esso si svolge. Anche il termine mensa deriva direttamente dal latino. Indica il tavolo conviviale in cui vengono disposti cibi e bevande per la consumazione di un pasto. Questo vocabolo indica la dimensione conviviale-comunionale dell’atto sacramentale che si realizza sulla mensa.
I praenotanda del Rito di Dedicazione di una Chiesa pongono in evidenza il valore simbolico dell’altare a partire dai gesti che il vescovo compie su di esso. Con l’unzione del crisma, l’altare diventa simbolo di Cristo, il Consacrato per eccellenza. L’incenso bruciato sull’altare significa che il sacrificio di Cristo e le preghiere dei fedeli salgono a Dio in odore di soavità. La copertura dell’altare attraverso la tovaglia indica che esso è insieme luogo del sacrificio eucaristico e mensa del Signore. Sacerdote e fedeli vi celebrano il memoriale della morte e risurrezione di Cristo e partecipano alla Cena del Signore.
È per questo che l’altare, mensa del convito sacrificale, viene preparato e ornato a festa (fiori). I ceri accesi ricordano che Cristo risorto è luce per illuminare le genti. (cfr. Pontificale Romano, Premesse al rito di dedicazione della chiesa e dell’altare, n.42).
La portata simbolica dell’altare chiarisce il senso dei gesti di venerazione che si compiono verso di esso. I ministri ordinati (diaconi, presbiteri e vescovi) sono soliti baciare l’altare all’inizio e alla fine della celebrazione, mentre tutti gli altri ministri e i fedeli fanno un inchino. Il bacio all’altare - gesto eccessivamente ripetuto prima della riforma liturgica - è un segno di venerazione molto antico che indica rispetto e amore alla mensa in cui si celebra l’Eucaristia e a Cristo stesso. È un atto di fede verso Cristo-Roccia (1Cor 10,4) sul quale il ministro si appoggia con sicurezza nell’atto di baciare l’altare.
 
 

8 luglio 2018

Celebrare nello spazio 5

GLI ARREDI LITURGICI

L’articolazione delle celebrazioni cristiane comporta l’utilizzazione di diversi oggetti, strutture fisse o mobili, suppellettili, vasi sacri. Con il termine generico "arredi liturgici" si è soliti indicare tutti quegli oggetti che servono in qualche modo all’esercizio della liturgia. Anche la riforma liturgica conciliare ha trattato questo argomento:
"Con speciale sollecitudine la Chiesa si è preoccupata che la sacra suppelleile sevisse con la sua dignità ebellezza al decoro del culto, ammettendo nella materia, nella forma e nell'ornamento quei cambiamenti che il progresso della tecnica ha introdotto nel corso dei secoli" (SC 122).
Gli arredi liturgici devono rispondere a tre caratteristiche principali: la funzionalità, la significatività e l’estetismo artistico.
 
1. La funzionalità.
La caratteristica della funzionalità è imprescindibile: gli arredi liturgici devono poter essere utilizzati con praticità a seconda dell’uso che se ne deve fare. La funzionalità degli arredi è da stabilire in base al luogo in cui vengono usati e in base a coloro che li usano. Pensiamo, ad esempio, come risulti inutile l’utilizzazione di un piccolo ostensorio in una grande aula celebrativa. Spesso capita di vedere dei giovanissimi ministranti gravati dal peso di candelieri o croci processionali fuori dalla loro portata. Legato al discorso della funzionalità è quello della manutenzione e cura degli oggetti che spesso risultano inutilizzabili a causa dell’usura.
 
2. La significatività.
L’uso di un oggetto liturgico non è fine a se stesso, deve infatti comunicare qualcosa a qualcuno. Dall’arredo liturgico deve emergere non solo la funzionalità ma il segno liturgico che con esso si vuole realizzare. A questo proposito sarà bene utilizzare per la loro realizzazione i materiali più adatti e significativi. Anche la significatività degli oggetti liturgici può essere sottolineata o impoverita a seconda della loro collocazione, della illuminazione dell’ambiente, del modo di usarli da parte dei ministri. È inoltre legata alla capacità dei fedeli di comprendere la portata simbolica dell’oggetto stesso e del suo determinato uso. Una catechesi sul valore simbolico degli oggetti liturgici farà sì che tale significatività sia colta con precisione e immediatezza.
 
3. L’estetismo artistico.
Il Concilio afferma: "Fra le più nobili attività dell'ingegno umano sono annoverate, a pieno diritto, le belle arti, soprattutto l'arte religiosa e il suo vertice, l'arte sacra. Esse, per loro natura, hanno relazione con l'infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell'uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all'incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio. Per tali motivi la santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali; ed essa stessa ha formato degli artisti" (SC 122).
La bellezza non è qualcosa che viene ad aggiungersi all’utilità e simbolismo dell’oggetto. L’estetica fa parte della funzione stessa dell’oggetto-segno.
 

29 giugno 2018

Celebrare nello spazio 4


LA CHIESA EDIFICIO NELLA LITURGIA “RINNOVATA”

Il Concilio Vaticano II, proposti i principi ispiratori della riforma liturgica, indica anche le norme da tener presenti nell'ambito dell'edilizia di culto, degli arredi e degli stili artistici.
Nel n. 128 della Sacrosanctum Concilium si legge:
"Si rivedano quanto prima, insieme ai libri liturgici, i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, e specialmente quanto riguarda la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e la erezione degli altari, la nobiltà, la disposizione e la sicurezza del tabernacolo eucaristico, la funzionalità e la dignità del battistero, la conveniente disposizione delle sacre immagini, della decorazione e dell'ornamento. Quelle norme che risultassero meno rispondenti alla riforma della liturgia siano corrette o abolite; quelle invece che risultassero favorevoli siano mantenute o introdotte".
I primi orientamenti concreti vennero con la pubblicazione del documento applicativo "Inter Oecumenici" (26 settembre 1964). La prima affermazione circa la disposizione delle chiese è la seguente:
"Nel costruire nuove chiese, o nel restaurare quelle già esistenti ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire la celebrazione delle azioni sacre secondo la loro vera natura, e ad ottenere la partecipazione attiva dei fedeli" (n. 90).
Sono due i criteri di base proposti dal testo:
1) nella chiesa devono potersi realizzare dei riti secondo verità, capaci di esprimere pienamente ciò
    che intendono comunicare;
2) lo spazio chiesastico deve accogliere un'assemblea celebrante, soggetto primario dell'azione
    liturgica.
Da ciò consegue una revisione dei singoli spazi: l'altare maggiore viene staccato dalla parete rendendolo "centro ideale a cui spontaneamente converga l'attenzione di tutta l'assemblea" (n. 91); la sede del "celebrante" deve essere visibile da parte dei fedeli così che sia recepita come lo spazio da cui si esercita un servizio di presidenza dentro l'assemblea (n. 92); viene abolito l'uso di edificare altari minori (n. 93); viene data l'opportunità di porre il tabernacolo al di fuori dell'altare maggiore e del presbiterio (n. 95); è ripristinato l'ambone come struttura privilegiata per la proclamazione della Parola di Dio.
Particolare rilievo è dato allo spazio riservato ai fedeli: "Si studi con diligenza la disposizione dei posti per i fedeli, affinché questi possano partecipare nel modo dovuto alle sacre celebrazioni con lo sguardo e con lo spirito. Conviene che normalmente si pongano per loro dei banchi o dei sedili. Si provveda, anche con l'aiuto dei moderni mezzi tecnici, che i fedeli possano non solo vedere, ma anche udire senza difficoltà il celebrante e i ministri" (n. 98).
Queste prime indicazioni furono sviluppate e chiarite prima nel capitolo quinto dell'introduzione al Messale Romano (PNMR 253-280) e in seguito nelle ricchissime introduzioni del Pontificale Romano circa i riti di posa della prima pietra e di dedicazione della chiesa e dell'altare. Questi testi sono il punto di riferimento imprescindibile per la progettazione di nuove chiese.
Ad essi si aggiunge la nota pastorale della Commissione episcopale della CEI per la liturgia "La progettazione di nuove chiese" (18 febbraio 1993).
Circa lo stile da utilizzare è sempre attuale il dettato conciliare:
"La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura. Anche l'arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta riverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo essa potrà aggiungere la propria voce al mirabile concento di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica" (Sacrosanctum Concilium 123).

21 giugno 2018

Celebrare nello spazio 3

DALLA BASILICA ALLA CHIESA TRIDENTINA

Dalla fioritura delle prime basiliche cristiane (secoli IV-VI) alla celebrazione del concilio di Trento (1545-1563) scorrono circa undici secoli. È un lungo periodo in cui il luogo di culto cristiano è sottoposto a innumerevoli cambiamenti. Alla base di tali modificazioni si possono riscontrare due motivi principali.
Il primo è legato al continuo rinnovarsi della teologia e della prassi celebrativa, il secondo alle variazioni di gusto artistico e architettonico.
La basilica, fino al IX-X secolo circa, risponde a precise intuizioni ed esigenze teologico-celebrative.
È uno spazio al quale viene conferita una sempre più chiara connotazione simbolica nella sua architettura globale (ad esempio la pianta a forma di croce ottenuta dal transetto che interseca la navata) come anche nella disposizione delle strutture interne (la posizione dell’altare, dell’ambone, della sede presidenziale; la realizzazione di locali annessi per la celebrazione del battesimo, per la custodia dei vasi sacri e delle offerte per l’eucaristia) ed esterne (i primi campanili sorgono attorno al V secolo e i cimiteri adiacenti le chiese sono in certo modo legati all’antichissimo culto dei martiri). L’acquisizione di una dimensione simbolica del luogo di culto comporta una progressiva variazione del senso della struttura chiesastica: da "casa della comunità" tende ad essere concepita sempre più come "luogo sacro" abitato da Dio. Le decorazioni interne, realizzate con tecniche differenti (mosaici, dipinti e sculture) hanno uno scopo didattico. I cicli pittorici medioevali (si pensi ai famosissimi affreschi giotteschi delle basiliche di Assisi) sono vere e proprie catechesi bibliche, "narrazioni" di vite di santi, raffigurazioni di concetti teologici (ad esempio i grandi "giudizi universali").
A partire dal IX secolo si riscontra una profonda evoluzione delle forme celebrative. Iniziano i tempi della fissazione dei testi liturgici.
I cicli pittorici medioevali (si pensi ai famosissimi affreschi giotteschi delle basiliche di Assisi) sono vere e proprie catechesi bibliche, "narrazioni" di vite di santi, raffigurazioni di concetti teologici (ad esempio i grandi "giudizi universali"). A partire dal IX secolo si riscontra una profonda evoluzione delle forme celebrative. Iniziano i tempi della fissazione dei testi liturgici.
La celebrazione acquisisce una più marcata dimensione verbale e spettacolare. Contemporaneamente si assiste ad un crescente individualismo liturgico-devozionale. Tale situazione determina l’"eclissi dell’assemblea liturgica" e la "clericalizzazione" delle celebrazioni.
La celebrazione eucaristica viene "applicata" secondo un’intenzione particolare espressa dal singolo fedele: per uno o più defunti, per chiedere una grazia speciale, per ringraziamento, in onore di un santo… Ciò determina una mutazione significativa: si rinuncia all’unicità dell’altare (simbolo di un solo Cristo e di un solo sacrificio) nello stesso edificio, e in numero sempre crescente ne vengono realizzati nelle navate e nel transetto.
Il presbiterio fu modificato per accogliere i sedili per la recita dell’Ufficio da parte dei monaci o dei canonici. Vennero realizzate strutture (talvolta anche dei muri) che segnassero una netta divisione tra navata e presbiterio.
Si arriva così ai tempi della riforma luterana e al Concilio di Trento.
La reazione cattolica alla dottrina protestante che poneva in crisi tutta la prassi dei sacramenti trovò le sue concretizzazioni non solo nelle definizioni dottrinali ma anche in un "rinnovamento" liturgico. Il Messale di Pio V (del 1570) divenne l’opera più significativa. Le chiese tridentine convergono verso il grande altare nel quale non solo si celebra l’eucaristica ma si conservano anche le specie eucaristiche. Il luogo di culto è concepito esclusivamente come il "luogo in cui è presente la divinità", un "monumento dedicato a Dio".
La riaffermazione della dottrina sacramentaria è a discapito del valore della proclamazione della Parola. Non è più necessario l’ambone che viene sostituito da un leggio mobile. Il grande pulpito è la sede in cui, soprattutto al di fuori dei momenti celebrativi, si pronunciano i "sermoni dottrinali".
Si realizzano, inoltre, delle strutture apposite per la celebrazione del sacramento della penitenza (confessionali).
L’arte barocca ha contribuito a completare l’opera. Dipinti e sculture attribuiscono agli ambienti un’aria fastosa che conduce i fedeli verso il punto più importante della chiesa: il tabernacolo.
Nei secoli successivi, fino al Concilio Vaticano II, pur variando l’aspetto artistico e architettonico delle chiese, il riferimento liturgico-dottrinale continuò ad essere quello del Concilio di Trento.

11 giugno 2018

Celebrare nello spazio 2

DALLA CASA ALLA BASILICA

Tutti sanno che, quando una famiglia cresce, sorgono "problemi di spazio". Fu così anche per la comunità cristiana dei primi secoli. Si vivevano tempi difficili: momenti di pace e di persecuzione si alternavano in maniera repentina. Nonostante le gravi difficoltà, le comunità non rinunciano ai loro incontri per l’ascolto della Parola e la celebrazione dell’Eucaristia. Intorno al 268 lo scrittore pagano Porfirio, parlando dei cristiani, testimonia l’esistenza di "amplissime sale dove si radunano per pregare".
Lo storico cristiano Eusebio, proprio nell’imminenza delle sanguinose persecuzioni di Diocleziano (284-305), descrive la situazione in cui si determinava l’attività della comunità, sottolineando il fatto che un numero sempre maggiore di persone era solito affluire presso le case di preghiera, per questo motivo "non ci accontentava più delle costruzioni del passato, e in ogni città si erigevano ampie e imponenti chiese". I ruderi della "casa della comunità" di Dura Europos (antica città della Mesopotamia, sulla riva destra del fiume Eufrate, nel deserto siriano, al confine con l’Iraq) testimoniano questo salto di qualità dei luoghi di culto cristiano.
Non si tratta più di una semplice "dumus ecclesiae" ma di una casa, probabilmente acquistata dalla comunità locale, e successivamente adattata per un uso esclusivamente cultuale. P. Jounel descrive così questo singolare sito archeologico: "Si tratta di un edificio costruito verso il 230 e rimasto in uso per vent’anni. Di questo complesso, a pianta quadrangolare con cortile interno, sono stati portati in luce il battistero e verosimilmente l’aula liturgica. La vasca battesimale è sormontata da un soffitto a volta decorato di stelle, mentre sulle pareti sono raffigurate diverse scene bibliche, fra cui campeggia l’immagine del buon Pastore". Inoltre sono state poste in rilievo altre strutture liturgiche e in modo particolare la sede presidenziale. L’anno 313 costituisce una svolta decisiva per la storia del cristianesimo. L’imperatore Costantino, insieme a Licinio, stese, in forma di rescritto, il "programma di tolleranza" comunemente noto come "editto di Milano". Al cristianesimo fu così riconosciuta, al pari di altre religioni, una completa equiparazione di diritti, tra cui la libertà di culto. È l’inizio della cristianizzazione dell’impero romano che, tra i secoli IV e VI, comportò la fioritura di nuovi e sempre più numerosi luoghi di culto.
La comunità cristiana, così come avvenne per le antiche "case della comunità", non si pone il problema di progettare e realizzare degli ambienti originali per gli incontri di preghiera, ma utilizza, adattandole, delle strutture preesistenti: le basiliche. La basilica deriva dall’ambiente architettonico persiano e in origine costituiva la sala per gli incontri del re (basileus). I romani, apprezzando le caratteristiche di tali costruzioni (immense aule a più navate, sostenute da pilastri e dotate di ampie absidi), le ritennero adatte per ospitare assemblee giudiziarie e per la discussione degli affari. Già altri movimenti religiosi - prima dei cristiani - utilizzarono le basiliche romane come luoghi di culto per i riti di iniziazione frequentati da folti gruppi di adepti. L’uso cristiano determinò delle modifiche alle strutture basilicali.
Nell’abside si individuò il luogo ideale per al realizzazione della sede presidenziale del vescovo e attorno i sedili per i presbiteri. L’altare e l’ambone trovarono locazioni diverse a seconda delle regioni: a Roma l’altare trovò posto tra l’abside e la navata, mentre nelle regioni Africane fu edificato più avanti, verso la navata. Nel tempo la basilica non fu più frutto di trasformazione di un precedente edificio ma una soluzione architettonica originale.
Le dimensioni e le disposizioni degli spazi acquisirono così maggiore armonia, grazie anche alle decorazioni - soprattutto musive - che ponevano in risalto le absidi, gli archi trionfali, i cibori, le balaustrate e tutte le altre strutture architettoniche.


5 giugno 2018

Celebrare nello spazio


QUANDO LA CHIESA ERA UNA CASA

Alle origini dell’esperienza ecclesiale i cristiani non si radunavano in luoghi "speciali" per il culto.
Negli Atti degli apostoli leggiamo che essi frequentavano il tempio di Gerusalemme, seguendo la prassi celebrativa del culto ebraico (Cfr. At 2, 46; 3, 1; 5, 12.42; 21, 26-30; 22, 17).
Pur non avendo interrotto la partecipazione ai momenti liturgici israelitici, da subito si realizza una celebrazione specificamente cristiana: la fractio panis ("la frazione del pane", cioè l’attuale celebrazione eucaristica"). Il luogo in cui si divideva il pane eucaristico era la casa di un battezzato.
Senz’altro veniva privilegiata una casa particolarmente capiente che potesse accogliere un buon numero di discepoli, com'era quella dove il giorno di Pentecoste "i fratelli radunati erano circa centoventi" (At 1, 15).
I cristiani organizzano queste riunioni per "ascoltare l'insegnamento degli apostoli, vivere nella comunione fraterna, spezzare il pane e pregare" (At 2, 42). Per fare questo bastava una grande sala da pranzo, poiché l'oggetto principale della riunione era un pasto. E così a Gerusalemme per "la casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera" (At 12, 12), quando Pietro era stato messo in prigione. A Troade, i cristiani si riunivano il primo giorno della settimana in una stanza al piano superiore per spezzare il pane (At 20, 7-8).
A Roma, Paolo saluta Prisca e Aquila e "la comunità che si riunisce nella loro casa" (Rm 16, 3-5).
A Laodicea, la comunità si raduna nella casa di Ninfa (Col 4, 15); a Colossi, in quella di Filemone (Fm 2).
Il fatto che i primi cristiani non avessero un luogo riservato in maniera esclusiva al culto è in linea con quanto è affermato nella "Lettera a Diogneto" (scritto di autore anonimo del II secolo): "I Cristiani infatti non si distinguono dagli altri uomini per il loro paese, per la lingua, per gli abiti. Non abitano città che siano loro proprie, non si servono di un qualche dialetto straordinario, il loro stile di vita non ha nulla di singolare. (…) Si distribuiscono nelle città greche e barbare a seconda del lotto che gli è toccato; si conformano alle abitudini del luogo per ciò che riguarda gli abiti, gli alimenti, lo stile di vita (...). Adempiono a tutti i doveri di cittadini e ricoprono ogni incarico come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria una terra straniera. Si sposano come tutti, hanno dei bambini, ma non abbandonano i loro nascituri Condividono la stessa tavola, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra ma sono cittadini del cielo". L’esperienza di fede come l’esperienza liturgica passano per la quotidianità degli eventi e dei luoghi. La casa è il luogo della "familiarità", luogo di condivisione. Ciò che conta è l’esperienza di fede del singolo e della comunità ecclesiale, a prescindere dai luoghi o dai contesti sociali in cui questa debba determinarsi. Come ricorda san Girolamo: "Parietes non faciunt christianos" (Non sono i muri a fare cristiani). Quando le prime comunità cominciarono a contare un numero sempre crescente di fedeli nacque l’esigenza di una casa da utilizzare esclusivamente per gli incontri comunitari. Sorgono così le "case della chiesa" (dove per chiesa si intende la comunità dei battezzati).
La "domus ecclesiae" è il primo luogo direttamente conducibile alle attuali chiese-edificio. È dalla domus ecclesiae che deriva il termine "chiesa" per individuare il luogo di culto. La riforma liturgica ha rivalutato l’esperienza liturgica della chiesa primitiva, restituendo alle celebrazioni e al luogo in cui si realizzano una forte dimensione comunitaria. Oggi, senza nulla togliere al sentimento di ammirazione e di omaggio a Dio, si preferisce vedere nella chiesa la "domus ecclesiae", la "casa della comunità", e non tanto un monumento a Dio.



31 maggio 2018

Culto nel Nuovo Testamento

Mentre il culto della prima alleanza si era materializzato attorno all’offerta di vittime esteriori (“senza spirito”, a-logos), Gesù viene per ripristinare il vero culto, l’unico richiesto da Dio al momento dell’alleanza e costantemente richiamato dai Profeti: se ascolterete, se osserverete la mia parola… Io sarò per voi il Signore Dio vostro, voi sarete per me il popolo mio (cf Es 19, 5-6). Dando compimento alle figure antiche, Gesù assomma in sé tutte le istituzioni cultuali di Israele: Egli è il è il vero tempio-abitazione di Dio tra gli uomini (Gv 1,14; cf Is 7,14), il vero ed eterno sacerdote (Eb 8,6; 7,24), il vero e perfetto sacrificio (Eb 9,14-23). Egli è vittima, sacerdote ed altare.
Solo il Figlio unico ed eterno del Padre, prendendo una natura come la nostra, poteva offrire al Padre non più sangue di animali, ma il proprio sangue; non più qualcosa di esterno, di materiale e di caduco, ma se stesso, la propria vita. E questo sacrificio egli lo compie non più con una volontà soggetta all’umana debolezza, come i sacerdoti dell'antica legge (cf Eb 7,26-28), ma nella comunione amorosa dello Spirito Santo (cf Eb 9,14), che gli consente di compiere un atto di amore infinito verso il Padre con un cuore di carne, cioè per mezzo dell'offerta del suo corpo fatta una volta per sempre (cf Eb 10,4-10; 9,12-15). Facendosi solidale con noi fino all'esperienza della morte, Cristo compie la sua donazione al Padre e ci ottiene la salvezza. Un sacrificio, il suo, costituito dall'amore con cui egli si dona a noi per compiere la volontà del Padre. D'ora in poi non avrà ragione di esistere altro sacrificio al di fuori di quello che Gesù Cristo ha offerto una volta per sempre al Padre; è infatti per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del suo corpo (Eb 10,10). «Egli al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre si è assiso alla destra di Dio, aspettando ormai solo che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi. Poiché con un'unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Questo ce lo attesta anche lo Spirito Santo. Infatti dopo aver detto: “Questa è l'alleanza che io stipulerò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente, dice: E non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità” (Eb 10,12-17).

19 maggio 2018

La Pentecoste quale espressione piena dell'Amore

"Quando verrà lui, lo Spirito della Verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future" (Gv. 16, 13).


Lo Spirito Santo: questa potenza di Dio che plasma e dà vita! Lo Spirito rigenera e risorge, guida ed irrobustisce. Proviamo allora ad addentrarci dentro all'espressione evangelica e a comprenderla maggiormente.
Partiamo dall'affermazione di san Giovanni nella sua Prima Lettera: "Dio è amore" (1Gv. 4, 16).
L'essenza di Dio è la carità, è l'amore: totale, continuamente eccedente; senza distinzione di persona, questo amore è per tutti. È l'amore che spinge il Padre a donare al mondo il Figlio; è l'amore che spinge il Figlio a portare la Buona Notizia ad ogni uomo; è l'amore che spinge ad accogliere, guarire, perdonare, ridonare fiducia e speranza.

Sant'Agostino, nella sua opera "De Trinitate" (Sulla Trinità), descrive molto bene e in maniera chiara la sua visione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo:
"Che è dunque l’amore o carità, tanto lodato e celebrato dalle divine Scritture, se non l’amore del bene? Ma l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato? È così anche negli amori più bassi e carnali, ma per attingere ad una fonte più pura e cristallina, calpestiamo con i piedi la carne ed eleviamoci fino all’anima. Che ama l’anima in un amico, se non l’anima? Anche qui dunque ci sono tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore. Ci rimane di elevarci ancora e cercare più in alto queste cose, per quanto è concesso all’uomo di farlo. Ma riposiamo per il momento un po’ la nostra attenzione, non perché essa ritenga di aver trovato già ciò che cerca, ma come si riposa di solito colui che ha trovato il luogo in cui deve cercare qualche cosa; non l’ha ancora trovata, ma ha trovato dove cercarla. Che queste riflessioni ci bastino e siano come il primo filo a partire dal quale noi tesseremo il resto della nostra trama" (De Trinitate, VIII 10.4).
Anche in questo brano ci viene offerto un ulteriore chiarimento e che ci fa dire, con assoluta certezza, che lo Spirito Santo è amore.

Torniamo al nostro versetto iniziale del Vangelo di Pentecoste. Ricordando il passo della lettera giovannea, che attesta Dio come amore; avendo ascoltato la testimonianza di un Padre della Chiesa come sant'Agostino, in merito allo Spirito come amore, possiamo asserire che lo Spirito Santo racconterà se stesso quale modello e attuazione piena dell'amore divino per ogni uomo, per tutta l'umanità: "...dirà tutto ciò che avrà udito...". Egli stesso è il Consolatore che il Padre e il Figlio donano: carità che diventa generosità, unità e speranza, misericordia e accoglienza.
Perché è quando si è amati che si trova il coraggio di amare; è quando si ha la percezione della propria finitezza che si accoglie l'immensità e ci si dà da fare per donarla agli altri. Questo è il fuoco dell'amore, il fuoco dello Spirito Santo. Il fuoco della Pentecoste, che ancora scende abbondante sull'umanità!