22 agosto 2018

Iconografia e Liturgia 1

 
Il Concilio di Nicea II° costituisce la conclusione di un lungo processo di riflessione sul senso e il posto delle immagini nella vita della Chiesa.
Fino all’inizio del III° secolo predomina nella Chiesa l’assenza delle immagini. Ciò si deve al pericolo dell’idolatria diffusa nel mondo pagano, già alla base del divieto di riprodurre immagini nella legislazione dell’Antico Testamento.
La pace della Chiesa ai tempi di Costantino ha delle conseguenze decisive. A seguito del numero sempre crescente di battezzati, aumentano le manifestazioni esteriori della pietà cristiana, si sviluppa il culto dei martiri, si accresce l’importanza dei pellegrinaggi, ovunque sorgono nuove chiese e Basiliche. L’arte cristiana cessa di essere prevalentemente iconografia funeraria, inintelligibile ai non iniziati e assume la funzione di favorire l’evangelizzazione delle folle sempre più numerose di cristiani.
            Nel IV° secolo si levano, per la prima volta nella storia della Chiesa, delle voci che disapprovano le immagini religiose, facendo appello all'interdizione delle immagini contenuta nell'Antico Testamento (cf. Es 20, 4; Dt 4, 15-18). Il canone 36 del Concilio di Elvira (300 ca), di cui per altro siamo scarsamente informati, stabilisce che “in chiesa non deve esserci nessuna immagine”; la lettera di Eusebio di Cesarea all'imperatrice Costanza e gli scritti di Epifanio di Salamina contengono affermazioni iconoclaste. A detta degli studiosi, questa prima forma di avversione nei confronti delle icone, è un fenomeno limitato e ristretto, forse tinto di colorazione ariana; sembra esserci un legame tra l'insistenza ariana sulla trascendenza di Dio e il divieto delle immagini. Ma queste voci iconoclaste persistono nel corso dei secoli e altre voci, allora, si levano a difendere le icone. Scrive Gregorio Magno (540-604): “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture” (Lettere IX, 209).
            L'icona si diffonde in maniera massiccia nel corso dei secoli VI° e VII°, favorita dalla fede popolare, dalla leggenda, dal miracolo. Non si diffonde ugualmente in tutte le aree della cristianità; i siriaci e gli armeni, ad esempio, erano molto meno inclini per il loro passato culturale all'uso delle immagini. È significativo che gli imperatori che favorirono l'iconoclastia fossero d'origine isaurica o armena. Nel 692, il Concilio in Trullo afferma: “In certe riproduzioni di immagini sacre il Precursore è raffigurato mentre indica col dito l'agnello. Questa rappresentazione fu assunta come simbolo della grazia. Essa era una figura nascosta di quel vero agnello che è Cristo, nostro Dio, rivelato a noi secondo la legge. Avendo dunque accolto queste figure e ombre come simboli della verità trasmessa dalla Chiesa, preferiamo oggi la grazia e la verità stesse come compimento di questa legge. Perciò, per esporre con l'aiuto della pittura ciò che è perfetto, decretiamo che d'ora in poi Cristo, nostro Dio, sia rappresentato nella sua forma umana e non nell'antico agnello” (can. 82). L'immagine di Cristo implicava già per i padri del Concilio trullano una confessione di fede piena nell'incarnazione.
            Un fattore che contribuì all'inasprimento delle posizioni favorevoli o contrarie all'uso delle icone fu l'avanzare dell'Islam, che pretendeva di essere la più alta e più pura rivelazione di Dio e accusava la Chiesa di politeismo e di idolatria per la sua venerazione delle immagini. L'ottavo secolo fu teatro di scontri violenti. L'atto inaugurale della prima fase della lotta iconoclasta fu l'ordine, impartito dall'Imperatore Leone III il Siro nel 726, di distruggere la raffigurazione di Cristo collocata sulla porta di bronzo del palazzo imperiale a Costantinopoli; l'immagine venne sostituita con una croce, sotto la quale l'imperatore fece collocare questa iscrizione: “Poiché‚ Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di vita, e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli”. A questo gesto seguì la promulgazione ufficiale di provvedimenti contro le immagini e il loro culto e violenze contro le icone e quanti le veneravano. Va ricordato che le misure iconoclaste di Leone III seguono di pochi anni l'editto del califfo Jadiz II, che ordinava la distruzione delle immagini in tutte le province cristiane da lui conquistate e gli attacchi degli ebrei al culto cristiano. L'imperatore tenta di operare un compromesso culturale che renda possibile la convivenza tra arabi, cristiani ed ebrei, cercando di smorzare gli elementi di conflitto. La ragione di stato vince sulle ragioni della fede. Papa Gregorio III, nel 731, reagì scomunicando gli avversari delle icone e del loro culto. In Oriente la difesa della venerazione delle icone fu opera soprattutto di Germano, Patriarca di Costantinopoli, di Giorgio di Cipro e di Giovanni Damasceno. Germano afferma che rigettare le icone significa rigettare l'incarnazione; nell'icona “noi disegniamo l'immagine del suo aspetto umano secondo la carne, e non quella della sua divinità incomprensibile e invisibile, perché ci sentiamo spinti a rappresentare quella che è la nostra fede per mostrare che Dio non si è unito alla nostra natura in apparenza, come un'ombra, ma che è divenuto veramente uomo” (Lettera a Giovanni di Sinade). Giovanni Damasceno combatte gli iconoclasti a diversi livelli. Confuta l'accusa di adorare nelle icone un pezzo di legno dicendo: “Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, diventato materia a causa mia” (Discorsi I, 16), e afferma che le icone sono “i libri degli illetterati” (Discorsi II, 10). Ma l'argomentazione più importante è quella teologica; il fondamento dogmatico del culto delle icone è l'Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne, Gesù è il volto umano di Dio e noi, dunque, lo possiamo rappresentare (Discorsi I, 22). L'Antico Testamento vietava l'immagine; Dio, nell'antica economia, si rivela solo attraverso la parola. Nel Nuovo Testamento la Parola si fa immagine. Nella difesa delle icone si citerà sovente il Salmo 47, 9: “Quello che abbiamo udito, l'abbiamo visto”. Giovanni distingue accuratamente il prototipo dall'icona che lo rappresenta. L'immagine è oggetto di venerazione, non di adorazione; quest'ultima è riservata soltanto a Dio.
            Nel 754, per iniziativa dell'Imperatore Costantino V, venne convocato a Ieria, sul Bosforo, un Sinodo che diede carattere normativo alle decisioni degli iconoclasti. Vi parteciparono 388 Vescovi, ma nessuno proveniva dalle sedi di Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Il Sinodo dichiara che gli imperatori sono uguali agli Apostoli, pieni di sapienza per opera dello Spirito Santo, incaricati di ricondurre sulla buona via i fedeli e di istruirli, e condanna la creazione di icone e il loro culto. Insiste sulla distanza tra l'icona, un oggetto materiale, e ciò che essa pretende di far vedere. Considera come unica vera immagine l'eucaristia. In tal modo, l'iconoclasmo, finora sostenuto soltanto da un editto imperiale, diventava dogma di tutta la Chiesa.
            Nei due decenni successivi, i monaci, principali sostenitori delle icone, furono violentemente perseguitati; numerosi monasteri furono confiscati, i monaci costretti ad arruolarsi nell'esercito imperiale, alcuni furono sottoposti a tortura. Papa Stefano nel 769 convocò un Sinodo al Laterano che anatemizzò quello di Ieria; anche i Patriarchi d'Oriente, Teodoro di Gerusalemme, Teodoro d'Antiochia e Cosma di Alessandria si rifiutarono di accettare le decisioni di Ieria.