QUANDO LA CHIESA ERA
UNA CASA
Alle origini dell’esperienza
ecclesiale i cristiani non si radunavano in luoghi "speciali" per il
culto.
Negli Atti degli apostoli
leggiamo che essi frequentavano il tempio di Gerusalemme, seguendo la prassi
celebrativa del culto ebraico (Cfr. At 2, 46; 3, 1; 5, 12.42; 21, 26-30; 22,
17).
Pur non avendo interrotto la
partecipazione ai momenti liturgici israelitici, da subito si realizza una
celebrazione specificamente cristiana: la fractio panis ("la frazione del
pane", cioè l’attuale celebrazione eucaristica"). Il luogo in cui si divideva il
pane eucaristico era la casa di un battezzato.
Senz’altro veniva privilegiata
una casa particolarmente capiente che potesse accogliere un buon numero di discepoli,
com'era quella dove il giorno di Pentecoste "i fratelli radunati erano
circa centoventi" (At 1, 15).
I cristiani organizzano queste
riunioni per "ascoltare l'insegnamento degli apostoli, vivere nella
comunione fraterna, spezzare il pane e pregare" (At 2, 42). Per fare questo bastava una
grande sala da pranzo, poiché l'oggetto principale della riunione era un pasto.
E così a Gerusalemme per "la
casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, dove si trovava un buon
numero di persone raccolte in preghiera" (At 12, 12), quando Pietro era
stato messo in prigione. A Troade, i cristiani si
riunivano il primo giorno della settimana in una stanza al piano superiore per
spezzare il pane (At 20, 7-8).
A Roma, Paolo saluta Prisca e
Aquila e "la comunità che si riunisce nella loro casa" (Rm 16, 3-5).
A Laodicea, la comunità si raduna
nella casa di Ninfa (Col 4, 15); a Colossi, in quella di Filemone (Fm 2).
Il fatto che i primi cristiani
non avessero un luogo riservato in maniera esclusiva al culto è in linea con
quanto è affermato nella "Lettera a Diogneto" (scritto di autore
anonimo del II secolo): "I Cristiani infatti non si
distinguono dagli altri uomini per il loro paese, per la lingua, per gli abiti.
Non abitano città che siano loro proprie, non si servono di un qualche dialetto
straordinario, il loro stile di vita non ha nulla di singolare. (…) Si
distribuiscono nelle città greche e barbare a seconda del lotto che gli è
toccato; si conformano alle abitudini del luogo per ciò che riguarda gli abiti,
gli alimenti, lo stile di vita (...). Adempiono a tutti i doveri di cittadini e
ricoprono ogni incarico come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria
e ogni patria una terra straniera. Si sposano come tutti, hanno dei bambini, ma
non abbandonano i loro nascituri Condividono la stessa tavola, ma non il letto.
Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla
terra ma sono cittadini del cielo". L’esperienza di fede come
l’esperienza liturgica passano per la quotidianità degli eventi e dei luoghi. La casa è il luogo della
"familiarità", luogo di condivisione. Ciò che conta è l’esperienza di
fede del singolo e della comunità ecclesiale, a prescindere dai luoghi o dai
contesti sociali in cui questa debba determinarsi. Come ricorda san Girolamo:
"Parietes non faciunt christianos" (Non sono i muri a fare
cristiani).
Quando le prime comunità
cominciarono a contare un numero sempre crescente di fedeli nacque l’esigenza
di una casa da utilizzare esclusivamente per gli incontri comunitari. Sorgono così le "case della
chiesa" (dove per chiesa si intende la comunità dei battezzati).
La "domus ecclesiae" è
il primo luogo direttamente conducibile alle attuali chiese-edificio. È dalla domus ecclesiae che
deriva il termine "chiesa" per individuare il luogo di culto. La riforma liturgica ha
rivalutato l’esperienza liturgica della chiesa primitiva, restituendo alle
celebrazioni e al luogo in cui si realizzano una forte dimensione comunitaria. Oggi, senza nulla togliere al
sentimento di ammirazione e di omaggio a Dio, si preferisce vedere nella chiesa
la "domus ecclesiae", la "casa della comunità", e non tanto
un monumento a Dio.