5 giugno 2018

Celebrare nello spazio


QUANDO LA CHIESA ERA UNA CASA

Alle origini dell’esperienza ecclesiale i cristiani non si radunavano in luoghi "speciali" per il culto.
Negli Atti degli apostoli leggiamo che essi frequentavano il tempio di Gerusalemme, seguendo la prassi celebrativa del culto ebraico (Cfr. At 2, 46; 3, 1; 5, 12.42; 21, 26-30; 22, 17).
Pur non avendo interrotto la partecipazione ai momenti liturgici israelitici, da subito si realizza una celebrazione specificamente cristiana: la fractio panis ("la frazione del pane", cioè l’attuale celebrazione eucaristica"). Il luogo in cui si divideva il pane eucaristico era la casa di un battezzato.
Senz’altro veniva privilegiata una casa particolarmente capiente che potesse accogliere un buon numero di discepoli, com'era quella dove il giorno di Pentecoste "i fratelli radunati erano circa centoventi" (At 1, 15).
I cristiani organizzano queste riunioni per "ascoltare l'insegnamento degli apostoli, vivere nella comunione fraterna, spezzare il pane e pregare" (At 2, 42). Per fare questo bastava una grande sala da pranzo, poiché l'oggetto principale della riunione era un pasto. E così a Gerusalemme per "la casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera" (At 12, 12), quando Pietro era stato messo in prigione. A Troade, i cristiani si riunivano il primo giorno della settimana in una stanza al piano superiore per spezzare il pane (At 20, 7-8).
A Roma, Paolo saluta Prisca e Aquila e "la comunità che si riunisce nella loro casa" (Rm 16, 3-5).
A Laodicea, la comunità si raduna nella casa di Ninfa (Col 4, 15); a Colossi, in quella di Filemone (Fm 2).
Il fatto che i primi cristiani non avessero un luogo riservato in maniera esclusiva al culto è in linea con quanto è affermato nella "Lettera a Diogneto" (scritto di autore anonimo del II secolo): "I Cristiani infatti non si distinguono dagli altri uomini per il loro paese, per la lingua, per gli abiti. Non abitano città che siano loro proprie, non si servono di un qualche dialetto straordinario, il loro stile di vita non ha nulla di singolare. (…) Si distribuiscono nelle città greche e barbare a seconda del lotto che gli è toccato; si conformano alle abitudini del luogo per ciò che riguarda gli abiti, gli alimenti, lo stile di vita (...). Adempiono a tutti i doveri di cittadini e ricoprono ogni incarico come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria una terra straniera. Si sposano come tutti, hanno dei bambini, ma non abbandonano i loro nascituri Condividono la stessa tavola, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra ma sono cittadini del cielo". L’esperienza di fede come l’esperienza liturgica passano per la quotidianità degli eventi e dei luoghi. La casa è il luogo della "familiarità", luogo di condivisione. Ciò che conta è l’esperienza di fede del singolo e della comunità ecclesiale, a prescindere dai luoghi o dai contesti sociali in cui questa debba determinarsi. Come ricorda san Girolamo: "Parietes non faciunt christianos" (Non sono i muri a fare cristiani). Quando le prime comunità cominciarono a contare un numero sempre crescente di fedeli nacque l’esigenza di una casa da utilizzare esclusivamente per gli incontri comunitari. Sorgono così le "case della chiesa" (dove per chiesa si intende la comunità dei battezzati).
La "domus ecclesiae" è il primo luogo direttamente conducibile alle attuali chiese-edificio. È dalla domus ecclesiae che deriva il termine "chiesa" per individuare il luogo di culto. La riforma liturgica ha rivalutato l’esperienza liturgica della chiesa primitiva, restituendo alle celebrazioni e al luogo in cui si realizzano una forte dimensione comunitaria. Oggi, senza nulla togliere al sentimento di ammirazione e di omaggio a Dio, si preferisce vedere nella chiesa la "domus ecclesiae", la "casa della comunità", e non tanto un monumento a Dio.