Il Concilio di Nicea II° costituisce la
conclusione di un lungo processo di riflessione sul senso e il posto delle
immagini nella vita della Chiesa.
Fino all’inizio del III° secolo
predomina nella Chiesa l’assenza delle immagini. Ciò si deve al pericolo
dell’idolatria diffusa nel mondo pagano, già alla base del divieto di
riprodurre immagini nella legislazione dell’Antico Testamento.
La pace della Chiesa ai tempi di
Costantino ha delle conseguenze decisive. A seguito del numero sempre crescente
di battezzati, aumentano le manifestazioni esteriori della pietà cristiana, si
sviluppa il culto dei martiri, si accresce l’importanza dei pellegrinaggi,
ovunque sorgono nuove chiese e Basiliche. L’arte cristiana cessa di essere
prevalentemente iconografia funeraria, inintelligibile ai non iniziati e assume
la funzione di favorire l’evangelizzazione delle folle sempre più numerose di
cristiani.
Nel IV° secolo si levano, per la prima volta nella storia della Chiesa, delle
voci che disapprovano le immagini religiose, facendo appello all'interdizione
delle immagini contenuta nell'Antico Testamento (cf. Es 20, 4; Dt
4, 15-18). Il canone 36 del Concilio di Elvira (300 ca), di cui per altro siamo
scarsamente informati, stabilisce che “in chiesa non deve esserci nessuna
immagine”; la lettera di Eusebio di Cesarea all'imperatrice Costanza e gli
scritti di Epifanio di Salamina contengono affermazioni iconoclaste. A detta
degli studiosi, questa prima forma di avversione nei confronti delle icone, è
un fenomeno limitato e ristretto, forse tinto di colorazione ariana; sembra
esserci un legame tra l'insistenza ariana sulla trascendenza di Dio e il
divieto delle immagini. Ma queste voci iconoclaste persistono nel corso dei
secoli e altre voci, allora, si levano a difendere le icone. Scrive Gregorio
Magno (540-604): “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di
dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli
che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini
sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture” (Lettere IX,
209).
L'icona si diffonde in maniera massiccia nel corso dei secoli VI° e VII°,
favorita dalla fede popolare, dalla leggenda, dal miracolo. Non si diffonde
ugualmente in tutte le aree della cristianità; i siriaci e gli armeni, ad
esempio, erano molto meno inclini per il loro passato culturale all'uso delle
immagini. È significativo che gli imperatori che favorirono l'iconoclastia
fossero d'origine isaurica o armena. Nel 692, il Concilio in Trullo afferma:
“In certe riproduzioni di immagini sacre il Precursore è raffigurato mentre
indica col dito l'agnello. Questa rappresentazione fu assunta come simbolo
della grazia. Essa era una figura nascosta di quel vero agnello che è Cristo,
nostro Dio, rivelato a noi secondo la legge. Avendo dunque accolto queste
figure e ombre come simboli della verità trasmessa dalla Chiesa, preferiamo
oggi la grazia e la verità stesse come compimento di questa legge. Perciò, per
esporre con l'aiuto della pittura ciò che è perfetto, decretiamo che d'ora in
poi Cristo, nostro Dio, sia rappresentato nella sua forma umana e non
nell'antico agnello” (can. 82). L'immagine di Cristo implicava già per i padri
del Concilio trullano una confessione di fede piena nell'incarnazione.
Un fattore che contribuì all'inasprimento delle posizioni favorevoli o
contrarie all'uso delle icone fu l'avanzare dell'Islam, che pretendeva di
essere la più alta e più pura rivelazione di Dio e accusava la Chiesa di
politeismo e di idolatria per la sua venerazione delle immagini. L'ottavo
secolo fu teatro di scontri violenti. L'atto inaugurale della prima fase della
lotta iconoclasta fu l'ordine, impartito dall'Imperatore Leone III il Siro nel
726, di distruggere la raffigurazione di Cristo collocata sulla porta di bronzo
del palazzo imperiale a Costantinopoli; l'immagine venne sostituita con una
croce, sotto la quale l'imperatore fece collocare questa iscrizione: “Poiché‚
Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di
vita, e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone
con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno
della croce, gloria dei fedeli”. A questo gesto seguì la promulgazione
ufficiale di provvedimenti contro le immagini e il loro culto e violenze contro
le icone e quanti le veneravano. Va ricordato che le misure iconoclaste di
Leone III seguono di pochi anni l'editto del califfo Jadiz II, che ordinava la
distruzione delle immagini in tutte le province cristiane da lui conquistate e
gli attacchi degli ebrei al culto cristiano. L'imperatore tenta di operare un
compromesso culturale che renda possibile la convivenza tra arabi, cristiani ed
ebrei, cercando di smorzare gli elementi di conflitto. La ragione di stato
vince sulle ragioni della fede. Papa Gregorio III, nel 731, reagì scomunicando
gli avversari delle icone e del loro culto. In Oriente la difesa della
venerazione delle icone fu opera soprattutto di Germano, Patriarca di
Costantinopoli, di Giorgio di Cipro e di Giovanni Damasceno. Germano afferma
che rigettare le icone significa rigettare l'incarnazione; nell'icona “noi
disegniamo l'immagine del suo aspetto umano secondo la carne, e non quella
della sua divinità incomprensibile e invisibile, perché ci sentiamo spinti a
rappresentare quella che è la nostra fede per mostrare che Dio non si è unito
alla nostra natura in apparenza, come un'ombra, ma che è divenuto veramente
uomo” (Lettera a Giovanni di Sinade). Giovanni Damasceno combatte gli
iconoclasti a diversi livelli. Confuta l'accusa di adorare nelle icone un pezzo
di legno dicendo: “Io non venero la materia, ma il Creatore della materia,
diventato materia a causa mia” (Discorsi I, 16), e afferma che le icone
sono “i libri degli illetterati” (Discorsi II, 10). Ma l'argomentazione
più importante è quella teologica; il fondamento dogmatico del culto delle
icone è l'Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne, Gesù è il volto umano di Dio
e noi, dunque, lo possiamo rappresentare (Discorsi I, 22). L'Antico
Testamento vietava l'immagine; Dio, nell'antica economia, si rivela solo attraverso
la parola. Nel Nuovo Testamento la Parola si fa immagine. Nella difesa delle
icone si citerà sovente il Salmo 47, 9: “Quello che abbiamo udito, l'abbiamo
visto”. Giovanni distingue accuratamente il prototipo dall'icona che lo
rappresenta. L'immagine è oggetto di venerazione, non di adorazione;
quest'ultima è riservata soltanto a Dio.
Nel 754, per iniziativa dell'Imperatore Costantino V, venne convocato a Ieria,
sul Bosforo, un Sinodo che diede carattere normativo alle decisioni degli
iconoclasti. Vi parteciparono 388 Vescovi, ma nessuno proveniva dalle sedi di
Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Il Sinodo dichiara che gli
imperatori sono uguali agli Apostoli, pieni di sapienza per opera dello Spirito
Santo, incaricati di ricondurre sulla buona via i fedeli e di istruirli, e
condanna la creazione di icone e il loro culto. Insiste sulla distanza tra
l'icona, un oggetto materiale, e ciò che essa pretende di far vedere. Considera
come unica vera immagine l'eucaristia. In tal modo, l'iconoclasmo, finora
sostenuto soltanto da un editto imperiale, diventava dogma di tutta la Chiesa.
Nei due decenni successivi, i monaci, principali sostenitori delle icone,
furono violentemente perseguitati; numerosi monasteri furono confiscati, i monaci
costretti ad arruolarsi nell'esercito imperiale, alcuni furono sottoposti a
tortura. Papa Stefano nel 769 convocò un Sinodo al Laterano che anatemizzò
quello di Ieria; anche i Patriarchi d'Oriente, Teodoro di Gerusalemme, Teodoro
d'Antiochia e Cosma di Alessandria si rifiutarono di accettare le decisioni di
Ieria.